
Quando il “design in ascolto” genera “identità impresse”.
C’è una nota nel mio vecchio iPhoneX, datata 5 giugno 2014 che dice: “Insegniamo agli elefanti a sbucciare le banane.”
Ricordo che era una frase PERICOLOSAMENTE “DISRUPTIVE” (DIROMPENTE): nascondeva l’insidia dell’ONNIPOTENZA, l’arroganza di CHI PENSAVA DI SAPERE TUTTO AVENDO FATTO (E VISTO) POCO o NIENTE. Una “buccia di banana” che dovevo assolutamente EVITARE.
Oggi, quella frase, oggi, racconta con precisione chirurgica ciò che vedo ogni giorno nel mio lavoro: Aziende, persone, brand che provano ad “insegnare agli elefanti a sbucciare le banane”.
Ovvero: provano a cambiare la natura delle cose, anziché comprenderla.
Si sforzano di educare invece di ascoltare, di correggere invece di coltivare, di costruire identità invece di rivelarla.
Forzano comportamenti, linguaggi ed identità invece di ascoltare ciò che già vive al loro interno.
Addestrano, uniformano e invece di evolvere… soffocano.
L’errore dell’addestramento.
Ogni volta che un’Azienda pretende di “insegnare” qualcosa a chi è già dentro un processo vitale (dipendenti, Clienti, Fornitori, Partner), compie un errore profondo: confonde l’addestramento con l’evoluzione.
L’elefante non ha bisogno di imparare a sbucciare la banana.
Ha bisogno che qualcuno capisca come la mangia perché la mangia così e cosa possiamo imparare da quel gesto.
Nel mondo del business, accade lo stesso: quante volte imponiamo procedure, linguaggi, brand manual, campagne di comunicazione e sistemi di valori “a tavolino”, dimenticandoci che l’identità vera non nasce da un piano marketing ma da un gesto quotidiano condiviso?
“Il design in ascolto”.
Un approccio che non parte (solo) dal foglio bianco ma dal suono che le persone già emettono nel fare ciò che fanno.
È un design che osserva, ascolta, interpreta e poi traduce in forma visibile ciò che già esiste.
Non è imposizione ma emersione.
Non è controllo ma riconoscimento.
È un processo di immersione e risonanza.
È il momento in cui il designer, il coach o il consulente smette di progettare ed inizia ad osservare.
È il punto in cui la strategia incontra l’empatia, dove la grafica incontra la cultura, dove la forma si piega al senso (e non al gusto), dove l’esperienza diventa momento e la storia trova i suoi “tempi di maturazione”.
Il design in ascolto non “crea identità” ma le rivela e le rende tangibili: attraverso un tono di voce, un sistema simbolico visivo, una promessa di marca o un’esperienza d’impresa coerente: ogni linea, ogni colore, ogni parola, ogni silenzio, ogni pausa, ogni domanda, ogni scelta di layout diventa un atto di consapevolezza
Un logo, una brochure, una campagna di comunicazione o uno storytelling sono già tracce di un’identità, la rappresentazione visiva e verbale di ciò che un’Azienda è quando nessuno la guarda.
Al tempo stesso, una sessione di Corporate Coaching è il momento esatto (intimo e riservato, protetto e definito) in cui decidiamo di lavorare sull’anima (compressa, repressa o inespressa) dell’Organizzazione (e delle persone che ne fanno parte).
Il problema è che la maggior parte delle Aziende lavora al contrario: parte dal risultato visivo (o idealizzato, sperato) e non dall’ascolto strategico, si concentrano sull’immagine e sull’estetica… dimenticando la sostanza.
Quando un’Azienda si mette in ascolto di sé stessa – delle proprie voci e vite interne, dei gesti ripetuti, delle parole ricorrenti, dei silenzi nei corridoi – allora il design smette di essere artistico /decorativo e diventa identitario, un’impronta viva.
Identità impresse che non si inventano ma si scoprono sono il risultato di una cultura che riconosce il valore umano all’interno del fare quotidiano, di un processo di ascolto profondo, di riconoscimento, di allineamento tra ciò che un’azienda dice di essere e ciò che è davvero.
Sono identità vive perché fondate sulle persone che ogni giorno rendono possibile l’Impresa.
Gesti. Dialoghi. Decisioni. Emozioni.
Non sono valori appesi al muro. Sono comportamenti.
E quei comportamenti, nel tempo, imprimono cultura.
Una cultura che diventa “agita” nel design.
Un design che diventa linguaggio.
Un linguaggio che diventa reputazione (e responsabilità).
Sono persone all’opera che fanno funzionare le Imprese, non per obbedienza ma per adesione.
Non perché “devono” ma perché “ci credono”.
Non perché è scritto nel mission-statement ma perché lo respirano ogni mattina entrando in Azienda.
L’identità impressa è quella che resta anche quando il logo cambia, quando i ruoli si trasformano, quando il mercato impone nuovi linguaggi. È ciò che rimane riconoscibile nonostante tutto.
È un ciclo vitale, non un manuale operativo.
Perché un’identità non si controlla: si custodisce.
Come il passo lento ma deciso di un elefante che non ha bisogno di imparare nulla di nuovo per essere sé stesso.
Il futuro ha la memoria lunga.
Forse, nel 2014, quella nota era solo una provocazione.
O forse era già una visione.
Siamo entrati nell’era del riconoscimento reciproco.
Le persone non cercano più brand da seguire ma Aziende da “sentire”.
E le Aziende, se vogliono sopravvivere, devono tornare ad ascoltarsi.
Smettiamola di insegnare agli “elefanti a sbucciare le banane” e impariamo, piuttosto, ad ascoltare come mangiano.
